Categorie
ricostruzione

Orvieto nel Cinquecento

Orvieto nel Cinquecento

di Elena Bastianini

La costruzione della grande Cattedrale di Orvieto nel Medioevo

Il duomo di Orvieto è uno dei monumenti più significativi dell’arte italiana tra Medioevo e Rinascimento. La cattedrale, che sormonta la piccola cittadina umbra, ha avuto notevole importanza nel mondo cattolico: la sua fondazione è legata al miracolo avvenuto a Bolsena del 1263, quando dall’ ostia spezzata durante una messa sgorgò del sangue che macchiò il lino del corporale del prete Pietro da Praga. Probabilmente questo legame fu solo costruito a posteriori, ma il cantiere del duomo fu aperto poco dopo, nel 1290, e si protrasse per secoli, per cui al progetto originario si sommarono il variare dei tempi, delle esigenze liturgiche, delle sensibilità artistiche e culturali. La prima fase costruttiva vide l’edificazione, forse su disegno di Arnolfo di Cambio, di una cattedrale dalla struttura ampia e possente, a tre navate, con una copertura a capriate lignee e una grandiosa facciata iniziata dal senese Lorenzo Maitani. Tra il 1350 e il 1356 fu costruita la cappella del Corporale per conservare le reliquie del miracolo di Bolsena e nel Quattrocento venne edificata la cappella di San Brizio, che fu decorata dal Beato Angelico e poi da Luca Signorelli con un ciclo di affreschi su le Storie degli ultimi giorni, un tema unico nell’arte, che fu d’ispirazione a Michelangelo per il Giudizio Finale.

La cattedrale di Orvieto in una foto del 1901

Il cantiere del Duomo di Orvieto al tempo della Controriforma

Nel XVI secolo Orvieto ricoprì un ruolo importante per la curia pontificia, tanto che papa Clemente VII vi trovò rifugio durante il sacco di Roma del 1527. La cittadina ebbe per vescovi cardinali e funzionari della curia romana, in particolare Girolamo Simoncelli, nipote di papa Giulio III, vescovo di Orvieto nella seconda metà del secolo, che arrivò a sfiorare la soglia pontificia. Parallelamente, il Cinquento fu anche un epoca di profonda trasformazione per la fabbrica orvietana: nella prima metà del secolo fu capo mastro il veronese Michele Sanmicheli, su suo disegno fu realizzato l’altare marmoreo con l’ Adorazione dei Magi nel braccio destro della crociera, ad opera di Simone Mosca e Raffaello da Montelupo. Nel 1540, per volere di papa Paolo III Farnese, il coro dei canonici fu spostato nella tribuna, liberando la navata centrale e rendendo così l’altare maggiore visibile dai fedeli. Nella seconda metà del secolo, sotto la supervisione prima del capo mastro Raffaello da Montelupo e poi di Ippolito Scalza la facciata fu completata e fu avviato un progetto di riammodernamento interno, che prevedeva di sostituire con nuovi apparati la decorazione che si era andata ad accumulare nei secoli. In un primo momento Ippolito Scalza, con il Moschino, costruì l’altare della Visitazione sul braccio sinistro della crociera, gemello dell’Adorazione dei Magi, con l’intento di edificare altari in marmo su tutto il perimetro della chiesa, ma poi si decise di continuarli in stucco, probabilmente per volere del cardinal Simoncelli, che giocò un ruolo fondamentale in questa fase dei lavori. Tra il 1556 e il 1575, anche se furono completate solo negli anni venti del 700, vennero costruite dieci cappelle nelle edicole laterali e due sulla controfacciata, ognuna formata da un altare sormontato da una grande pala verticale incorniciata da stucchi, marmi, grottesche e affreschi. Il perimetro interno della chiesa umbra divenne così il più importante testo figurativo composto durante il Concilio di Trento(1545-63), prima ancora dei lavori del Vasari nella chiesa di Santa Maria Novella e Santa Croce a Firenze. Il concilio tridentino fu aperto dopo lo scisma luterano, in un momento di grande difficoltà della chiesa: partito con l’intento di riportare l’unità tra cattolici e protestanti, dopo lo sfilarsi di questi ultimi diverrà una grande revisione della curia romana, nei suoi dogmi e nella sua disciplina. Gli altari orvietani avevano come fulcro le enormi pale con i protagonisti disposti in faccia al visitatore, ponendo al centro la figura di Cristo, in un percorso che il fedele doveva leggere partendo dall’ingresso della navata sinistra in direzione dell’abside, con le scene dei segni o dei miracoli, per poi tornare indietro verso l’ingresso e risalire la navata destra, con le scene della passione. Le arti figurative, negate dall’iconoclastismo protestante, sono un enorme palinsesto per veicolare i caposaldi della chiesa cattolica: la fede in Gesù Cristo e nelle opere, ribadita nell’intero ciclo figurativo della cattedrale, nelle figure dei patriarchi e dei santi, nell’annuncio dei profeti e delle sibille, nell’Annunciazione del Mochi nella tribuna e nelle Storie della Vergine nei due altari della controfacciata fini alle sculture degli Apostoli alla base dei pilastri della navata centrale.

Orvieto divenne il centro artistico più importante negli anni sessanta del XVI secolo, per il connubio tra pittura e decorazione nato dal sodalizio tra il veneziano Girolamo Muziano, l’orvietano Cesare Nebbia, che divenne suo stretto collaboratore, i già celebri fratelli Zuccari, il toscano Niccolò Circignani e il decoratore fiorentino Ferrante Fancelli, fortemente voluto dal cardinale Simoncelli per gli stucchi della cattedrale umbra. L’arredo orvietano utilizza tutti gli elementi decorativi rinascimentali- dipinti, monocromi, grottesche, marmi, affreschi- inserendoli in una geometria di cornici in stucco dorato, sostenute da creature fantastiche come sfingi e putti ignudi. Un rigoglio figurativo non ancora imbrigliato dalla stretta ideologica, fatta di censura e di autocensura, dell’arte della controriforma: un’altra via, poi abbandonata, che non eliminava i motivi della tradizione antica e pagana dall’arte religiosa, ma li lasciava dialogare con i personaggi del Nuovo e del Vecchio Testamento, come era avvenuto in tutta l’arte rinascimentale. Una possibile via dimenticata dai libri di storia, perché questo ciclo decorativo è andato perduto.

Incisione settecentesca dell’interno del Duomo di Orvieto

La distruzione degli arredi cinquecenteschi a fine Ottocento

Tra il 1877 e il 1878 gli arredi cinquecenteschi furono distrutti, si salvano soltanto gli altari del braccio della crociera; le pale d’altare, conservate oggi nel Museo dell’Opera del Duomo; e le sculture della navata centrale, a lungo conservate nella chiesa di Sant’Agostino e che sono state da poco ricollocate nella cattedrale. La decisione di rimuovere gli arredi cinque-seicenteschi derivò dalle convinzioni del neo medievalismo ottocentesco che riteneva che le chiese di età medievale avessero una superiorità etico-religiosa rispetto a quelle rinascimentali, che erano percepite come più corrotte per la riscoperta e la ripresa del paganesimo antico. Già nella descrizione del Duomo di Orvieto del 1848 Ludovico Luzi, pur lodando l’esecuzione degli stucchi, non li ritiene appropriati a una chiesa:

“Ben disegnate figure vi si osservano ed eseguite con facilità e prontezza, e lungo gli scorniciamenti vi ricorrono ornamenti graziosi, svariati e di bella invenzione. I quali però se bene addiconsi a terme, a portici, a ninfei, ed altrettanti edifici pagani di ricreamento e di mollezza, mal si accordano col monumento cristiano, e con l’architettura del secolo.”

Così quando nel 1860 Orvieto fu annessa al Regno d’Italia nel piano d’interventi programmati leggiamo non solo la necessità di restaurare il tetto, gravemente danneggiato dall’usura del tempo, ma anche la volontà di smantellare gli arredi cinquecenteschi. Artefici del restauro furono Carlo Franci, presidente dell’opera del Duomo dal 1879 al 1908 , Paolo Zampi, ingeniere dell’opera dal 1874 al 1905, e Luigi Fiumi, archivista dell’Opera, genuinamente convinti che, “rimossi gli altari in stucco dalle edicole delle navi collaterali, riaperte in esse le lunghe e strette finestrelle, e fatte girar loro intorno le colonnine ritorte a spirale allungatissime”, la chiesa potesse ritornare alla sua primitiva nudità. Soltanto dopo oltre trent’anni il Fiumi avrebbe accennato ad un pentimento, dopo la mancata ridipintura delle cappelle distrutte:

“Certo mai più avverrà che il piccone ignobile con tanta disinvoltura porti la distruzione sulle opere di ingegno e della mano di buoni maestri del loro tempo, per cedere alla scialba tinta degli imbianchini. Abbiamo abbattuto gli altari e vedovata la cattedrale dal suo culto. Abbiamo dato lo sfratto ai santi, è rimasta isolata come in un deserto, la maestà di Dio in un gran vuoto, di silenzio carico di freddezza.”

Interno del Duomo di Orvieto oggi

La nostra ricostruzione digitale delle cappelle cinquecentesche del Duomo di Orvieto

Ricostruire in maniera filologicamente accurata un manufatto artistico andato distrutto significa analizzare tutti i dati e le testimonianze che su di lui si sono conservate. Nel caso degli arredi del duomo di Orvieto le tracce da raccogliere sono molteplici, grazie alla straordinaria importanza della cattedrale e al fatto che la distruzione sia avvenuta in un’epoca relativamente recente. Se l’Ottocento ha segnato il patrimonio artistico con restauri spesso invasivi è stato anche il secolo della nascita della fotografia e della sistemazione archivistica e infatti le cappelle furono fotografate nel 1877, prima della loro distruzione. Lo studio fotografico orvietano, Armoni Moretti, che ci ha lasciato un patrimonio inestimabile di immagini di Orvieto a fine Ottocento, fu incaricato di fotografare le cappelle, con foto di straordinaria qualità che, seppur in bianco e nero, ci permettono di vedere come erano le decorazioni. A questi documenti conservati nell’archivio dell’Opera del Duomo di Orvieto si sommano incisioni settecentesche e numerose descrizioni della cattedrale, che ci delucidano sull’apparato iconografico delle decorazioni. Testimonianze che però ci restituiscono un’immagine in bianco e nero delle cappelle, se non fosse per una fonte settecentesca che ricorda come queste fossero composte da “stucchi dorati”.

Fotografie della terza cappella a sinistra dello studio Armoni Moretti prima e dopo le distruzioni del 1877 ©Archivio Opera del Duomo di Orvieto

Dal nostro punto di vista è fondamentale cercare di ricostruire l’apparato decorativo e la cromia delle cappelle per comprenderne appieno la fisionomia, anche se siamo abituati a una storia dell’arte in bianco e nero e che tende a studiare i dipinti isolandoli dal loro apparato decorativo. Non sapremo mai come erano i colori degli arredi, ma possiamo immaginarli guardando la ricchezza decorativa che troviamo nelle numerose commissioni del sodalizio tra Girolamo Muziano e Cesare Nebbia che si era creato proprio a Orvieto: nei palazzi urbani e suburbani di Ippolito d’Este, protetto di Giulio III e amico del Simoncelli, in particolar modo nella villa d’Este a Tivoli decorata tra il 1560 e il 72;nelle decorazioni per papa Gregorio XIII , come la Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano ancora di Muziano e Nebbia 1581-83. E poi, anche se epurate ormai dai richiami alla cultura pagana- nelle imprese decorative volute da Sisto V, che concernono i luoghi più santi o i centri del potere papale- palazzi lateranensi, biblioteca sistina e Scala Santa- in vista del giubileo del 1600. Infatti per cercare dei paralleli allo stile orvietano bisogna guardare soprattutto alle decorazioni profane, mentre l’ambiente religioso più affine nel rapporto tra le cornici, stucchi, grottesche e dipinti è la cappella di Palazzo Farnese a Caprarola, decorata dagli Zuccari negli anni Sessanta del Cinquecento. Tutto l’edificio, voluto da papa Paolo III Farnese e continuato dal nipote Alessandro, richiama la cultura figurativa del Duomo di Orvieto, ma in particolare questa cappella può farci percepire come doveva apparire l’interno della cattedrale prima di fine Ottocento.

Decorazioni del Palazzo Simoncelli a Torre San Severo, Orvieto

Raccolti tutti i riferimenti possibili si può procedere alla ricostruzione tridimensionale delle cappelle. Nello specifico ci siamo occupati della terza cappella a sinistra della cattedrale. Nel caso della nostra cappellina soltanto la pala d’altare di Niccolò Circignani detto il Pomarancio raffigurante il miracolo de La Piscina Probatica si è salvata dal piccone di fine Ottocento. Il resto delle decorazioni sono invece andate distrutte, ma utilizzando la fotografia di Armoni Moretti come guida e tenendo conto che le fonti ci dicono che non solo la pala d’altare, ma tutte le decorazioni fossero opera del Pomarancio, le abbiamo ricostruite a confronto con le altre opere dell’artista, pittore molto attivo tra l’Umbria e il Lazio. Siamo molto contenti del risultato ottenuto, anche se non nascondiamo il sogno di voler ricostruire digitalmente tutti gli arredi policromi del Duomo di Orvieto per sanare, seppur digitalmente, le ferite di quel “piccone ignobile”.

Bibliografia

Benois N., Resanoff A. et Krakau A., Monographie de la Cathedrale d’Orvieto, Paris, 1877.

Cambareri M., Ippolito Scalza e la trasformazione nel Duomo di Orvieto nel Cinquecento: le sculture marmoree, in Il Duomo di Orvieto e le grandi cattedrali del ‘200, a cura di G. Barlozzetti, orvieto 1995, pp. 199-212.

G. C. Clementini, Esatta descrizione del celebre duomo, 1704, m.s in Archivio dell’Opera del Duomo di Orvieto, c.46.

Della Valle G., Storia del Duomo di Orvieto, 1791.

Fumi L. , Il Duomo di Orvieto e i suoi restauri: monografie storiche condotte sopra i documenti, Roma 189.

Garzelli A., Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto, 1972.

Luzi L., Il duomo di Orvieto, 1866, Firenze.

E. Onori, Un secolo nemico a le Lettere e a l’Arti ti tolse lo splendore de ‘l tuo bel manto antico. Il Duomo di Orvieto: fucina delle arti dopo il Concilio di Trento, «Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano», 2011, pp. 215-236.

Satolli A., Documentazione inedita sugli interventi cinquecenteschi nel duomo scomparsi con i restauri del 1877, in appendice a Quel bene detto duomo, in Studi sul Duomo di Orvieto, «Bollettino ISao», XXXIv (1978), orvieto 1980, pp. 129-133.

Satolli A., La fondazione e i centenari del duomo di Orvieto nel VII centenario dalla fondazione, Bolsena 1990

Strinati C., Roma nell’anno 1600. Studio di pittura, in “Ricerche di Storia dell’Arte”, 1980, pp.15-48.


Continua a leggere…